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martedì, giugno 03, 2008

La lingua giocando alle scuole elementari


La lingua giocando alle scuole elementari


 


M.L. TEDDE


1. Un quadro teorico
1.1 Il gioco e lo sviluppo del bambino
1.1.1 Una classificazione genetica del gioco
1.1.2 Lo sviluppo linguistico nel quadro dello sviluppo cognitivo del bambino
1.1.2.1 La struttura neurofisiologica del cervello
1.1.2.2 Il cervello del bilingue
1.1.2.3 Motricità e linguaggi
1.2 Il gioco nell'insegnamento delle lingue ai bambini
1.2.1 L'età ottimale per l'insegnamento della lingua straniera
1.2.2 L'insegnamento della lingua straniera e il gioco
1.2.3 Aspetti fondamentali per una didattica a misura del bambino


















1. Un quadro teorico

Prima di presentare i giochi svolti coi bambini ritengo opportuno esporre la teoria che sta alla base di tale insegnamento.
Da diversi anni si evidenzia un radicale cambiamento nei confronti del gioco. Mentre prima veniva considerato «un’inutile perdita di tempo», ora viene rivalutato non solo in quanto fattore e strumento fondamentale per lo sviluppo del bambino, ma anche per il suo potere di libera.re l’uomo adulto dalle angosce, dagli aspetti traumatizzanti della vita.
La riscoperta del gioco non e pero senza contraddizioni. Si è passati in molti casi da una visione troppo rigida e severa a una visione troppo tollerante che facendo corrispondere il gioco col «giocattolo» ha portato alla scomparsa del gioco nel suo vero significato educativo.
Nonostante ciò oggi il gioco viene riconosciuto come uno «straordinario fattore di sviluppo e di apprendimento per il bambino» (Freddi: 1990).
Sul piano ontogenetico il gioco accompagna il bambino dai primi anni di vita manifestandosi diversamente a seconda delle età.
Gli studi neurofisiologici sullo sviluppo dell’uomo e in particolare quelli che prendono in considerazione lo sviluppo dei due emisferi cerebrali, hanno evidenziato anch’essi l’importanza del gioco nell’acquisizione del linguaggio.
La scuola non offre ancora oggi né una glottodidattica per bambini, né una glottodidattica fondata sull’attività ludica che utilizzi quindi le risorse affettive, cognitive e socioculturali cosi come si esprimono col gioco.
Nella pratica quotidiana è spesso considerato come «una necessaria perdita di tempo». Viene utilizzato per rimotivare gli alunni ma si fa in modo che «non duri troppo» e che «non si ripeta troppo spesso» perché c’è il programma da terminare.
Il gioco invece, può occupare uno spazio molto maggiore nell’insegnamento. Può diventare uno stato d’animo, un modo privilegiato di apprendimento e persino un «modus vivendi».
Con i programmi del 1985 si è dato un posto fondamentale al gioco. In tali programmi è previsto l’insegnamento della lingua straniera ormai in vigore già dal 1992/93. Si ritiene necessario quindi fondare una didattica linguistica che, sulla base dei dati verificati sul pianto ontogenetico, neurofisiologico e dello sviluppo dell’uomo in generale, tenga conto allo stesso tempo delle scienze del linguaggio e della comunicazione, delle scienze della cultura, dell’educazione ecc.

 



















1.1 Il gioco e lo sviluppo del bambino

Vi sono diverse teorie che definiscono il gioco in rapporto allo sviluppo dell’uomo. Molti elementi di tali teorie confermano non solo che questo costituisce una componente fondamentale nello sviluppo del bambino, ma che caratterizza anche tutta l’esistenza dell’uomo.

- Karl Groos (1898,1901)
lo definisce come un esercizio preparatorio dell’uomo alla complessità della vita adulta.

- Claparède (1909)
attraverso la «théorie de la catharsis», sostiene che il gioco ha la funzione di dirigere le tendenze inconsce dell’uomo verso la loro sublimazione. Avviene cosi che gli istinti brutali dell’uomo possano tradursi in forme d’arte.

- Freud (1929)
afferma che il bambino ricorre al gioco per dominare le ansie, le frustrazioni e gli eventi traumatizzanti e, che tali dinamiche ludiche, continuano ad esistere anche nell’adulto.

- Piaget (1964-1972)
parla di una teoria del gioco come «assimilation» (incorporazione degli eventi, delle cose, delle persone nelle strutture psichiche esistenti) e «accomodation» (riorganizzare delle strutture mentali sulla base di nuove esperienze e nuovi materiali) con la realtà.
Il gioco dunque, secondo Piaget, ha la funzione di soddisfare l’«io», trasformando la realtà secondo i suoi propri desideri.

- J.S. Bruner (1981-1987)
considera il gioco come uno strumento capace di fare uscire il bambino dall’immaturità che lo accompagna nelle varie fasi dello sviluppo. Lo studio delle teorie etologiche inoltre lo porta a sostenere che la diversità e la durata del gioco nell’uomo rispetto all’animale, è una differenza qualitativa connessa con lo sviluppo del linguaggio.

Tutte le teorie finora esposte possono essere raggruppate in una categoria unica in quanto il gioco si manifesta come fattore di maturazione e sviluppo.

 





















1.1.1 Una classificazione genetica del gioco

Presentiamo ora una classificazione dei giochi che accompagnano lo sviluppo del bambino e che potrà esserci utile al fine di elaborare una glottodidattica per bambini.
Piaget definisce tre tipi di giochi secondo le varie fasi dello sviluppo: i giochi di esercizio, i giochi simbolici e i giochi di regole.

1) I giochi di esercizio
Si presentano prevalentemente nei primi 18 mesi di vita. All’età di circa 12 mesi, possiamo notare che il bambino segue degli schemi di azione: ogni oggetto che scopre lo getta per terra in tutte le direzioni per analizzarne le cadute e le traiettorie. Non appena il bambino comincia ad emettere dei suoni gioca con la lingua cosi come prima giocava con gli oggetti che lo circondavano.
R. Weir ed altri specialisti sostengono che questi giochi hanno lo scopo di dominare e controllare lo strumento linguistico.

2) I giochi simbolici
Si presentano circa dall’età di 2 anni e introducono il bambino nel mondo ludico dell’immaginazione, del «come se», che è tipicamente umano e prende origine dall’azione. Il gioco, in questo momento, deve essere interpretato come la realizzazione immaginaria e illusoria di desideri irrealizzabili: «un bout de bois devient une poupée, une boite devient une voiture» (Piaget: 1972). Il bambino si trova ancora nella fase di egocentrismo e non è ancora in grado di comprendere il concetto saussuriano di «signe», che è per sua natura collettivo ed è il risultato tra il «signifiant» (immagine acustica) e il «signifié» (ciò che questa immagine designa all’interno di una collettività). In questa fase le azioni possono essere rappresentate in diversi modi e il linguaggio verbale costituisce solo uno tra i modi possibili.

3) I giochi di regole
La nozione di regole rinvia al processo di socializzazione e cioè di integrazione del bambino in una collettività retta da particolari regole. Attraverso i giochi di regole i bambini, superando l’egocentrismo infantile, cominciano a comprendere ed accettare la realtà degli altri, la realtà della collettività alla quale appartengono.

 
























1.1.2 Lo sviluppo linguistico nel quadro dello sviluppo cognitivo del bambino

Dopo aver analizzato i giochi in rapporto all’evoluzione del bambino e necessario scoprire quali sono gli elementi essenziali che connettono la comunicazione all’attività del corpo e del cervello. L’uomo comunica attraverso i linguaggi verbali e non verbali e questi ultimi si manifestano ontogeneticamente nel bambino prima del linguaggio verbale. Questo ci permette di comprendere meglio la competenza semiotico-comunicativa del bambino.
Ma vediamo ora in modo più approfondito la struttura neurofisiologica del cervello, cosa avviene nel cervello del bambino bilingue e il posto della motricità nello sviluppo del bambino.

 




























1.1.2.1. La struttura neurofisiologica del cervello

Al momento della nascita i due emisferi cerebrali sono equivalenti. Il bambino li utilizza entrambi indifferentemente.
A partire dai 4 o 5 anni comincia il processo di «lateralizzazione» in cui ogni emisfero si specializza sempre di più a svolgere determinate funzioni.
Il periodo di «plasticità cerebrale», in cui i due emisferi svolgono indifferentemente le stesse funzioni, termina verso gli 8 anni. Dopo questa età il processo di lateralizzazione è quasi completamente compiuto e ogni emisfero svolge un ruolo particolare:
a) l’emisfero destro e dominante per quanto riguarda i linguaggi non verbali (musica, ritmo, danza, arte, cinesica, ecc...). Esso è importantissimo per la comunicazione verbale perché ci permette di cogliere i legami con gli altri linguaggi in gioco, di registrare le connotazioni, di interpretare i valori melodico-ritmici, di confermare, rinforzare o smentire il testo linguistico.
Queste osservazioni sono importanti perché ci permettono di capire che nel cervello dell’uomo esiste una bilateralità complementare e che nel linguaggio e nella comunicazione il cervello comunica in modo olistico utilizzando l’apporto integrato dei due emisferi.

 



























1.1.2.2. Il cervello del bilingue

Le caratteristiche neurofisiologiche del soggetto bilingue ci conduco- no a sostenere l’insegnamento precoce di una seconda lingua.
Il soggetto bilingue sembra avere molti vantaggi. Riscontriamo infatti:
- meno lateralizzazione per le due lingue. La seconda lingua sembra interessare particolarmente l’emisfero destro;
- il realismo nominale (la parola e la cosa) viene ben presto sostituito dalla convenzionalità dei significati;
- anticipazione della capacita di astrazione linguistica.
Da un punto di vista glottodidattico ciò significa valorizzare le strategie dell’emisfero destro con delle attività che coinvolgano totalmente il bambino attraverso l’utilizzazione di tutte le dimensioni sensoriali.

 

























1.1.2.3. Motricità e linguaggi

La motricità non interviene mai come linguaggio autonomo, ma è la base, l’elemento costitutivo di altri linguaggi come la danza, la mimica, la cinesica, ecc... Quando le attività motrici diventano intenzionali si par- la di azione che può trasformarsi in gioco e in linguaggio verbale.
Nel disegnare una glottodidattica per bambini, occorre quindi basarsi su questa realtà trigonometrica (azione, gioco, lingua) che parte sempre dalla motricità stessa.

 

























1.2 Il gioco nell’insegnamento delle lingue ai bambini

Prima di tracciare una glottodidattica per bambini fondata sul gioco esaminiamo ora le caratteristiche tipiche del bambino e il ruolo finora occupato dal gioco nell’educazione didattica.

 





























1.2.1. L’età ottimale per l’insegnamento della lingua straniera

Abbiamo gia visto precedentemente (cap. 1.1.2.1., 1.1.2.2.), come esistano delle ragioni valide per sostenere l’insegnamento precoce di una lingua straniera. Nell’età più «plastica» (4-8 anni), si imparano più facilmente la struttura, il ritmo, l’intonazione e l’accento. Tale apprendimento automatico sembra sparire completamente cori l’adolescenza.
Esistono però fattori esterni (il tempo a disposizione del bambino, le attitudini, i metodi e i materiali didattici), e fattori interni (la predisposizione dei bambini, le motivazioni, le modalità di apprendimento, ecc.), che sono a favore di un insegnamento della lingua straniera durante la prima infanzia. Ma come bisogna insegnare?

Indice





























1.2.2. L’insegnamento della lingua straniera e il gioco

Lo scopo di qualsiasi insegnamento della lingua straniera dovrebbe essere quello di trasformare l’apprendimento tipico della lingua straniera in «acquisizione» tipico della lingua materna. Poiché questo è quasi impossibile bisognerebbe cercare di rendere più naturale l’apprendimento e questo può forse essere fatto attraverso il gioco.
Claparède (1909), lo definisce come una modalità gioiosa, libera e disinteressata, fondamentale per lo sviluppo del bambino; un’attività che non tende a uno scopo preciso se non quello dell’atto stesso del giocare. A questo egli contrappone il lavoro, attività tendente ad uno scopo, e ci illustra, attraverso un grafico che mostra l’evoluzione naturale del gioco al lavoro, come l’educazione scolastica, non rispettando la naturale evoluzione del bambino, provochi una sorta di «cour circuit scolaire». Il bambino si trova, come illustrato nella figura 1, a passare dal «gioco con uno pseudo-scopo» al «lai oro forzato» cioè un’attività demotivante, imposta e che non ha per lui nessuna ragione d’essere.


Ma come possiamo tradurre dei comportamenti in competenze e conoscenze se queste sono attività che tendono ad uno scopo?
Freddi (1990), ci propone di reinterpretare quest’ordine di giochi da un punto di vista pedagogico. Egli, riprendendo la curva di Claparède, individua le modalità e il contenuto di una didattica ludica nelle attività della parte superiore della curva e cioè:
– le attivitci con scopo libidico (per es. imparare la parte di una commedia);
– i giochi superiori (creazioni artistiche fatte senza nessun ordine, per il semplice piacere);
– il lavoro superiore (in cui esecuzione e prodotto finale sono ugualmente interessanti);
– il lavoro con motivazioni intrinseche (che pur non essendo interessante di per se stesso produce immediatamente i risultati voluti).
È pregevole che i Nuovi Programmi affermino che l’educazione linguistica, ricondotta nell’ambito dei linguaggi, debba privilegiare forme di linguaggio non verbali come l’iconico, il musicale, il corporeo, ecc.. Il punto di partenza deve quindi tener conto sempre e comunque dell’esperienza e degli interessi del bambino e deve essere quindi fondato sul gioco.

 


























1.2.3. Aspetti fondamentali per una didattica a misura del bambino

Sulla base di quanto finora esposto vengono stabilite delle modalità d’intervento didattico come la lucidità, la sensorialità, la motricità, la bimodalità neurologica, la relazionalità/transazionalità, la pragmaticità, l’espressività, l’autenticità, il biculturalismo, la naturalità e l’integrazione delle lingue.
Tra queste modalità la lucidità deve rappresentare il filo conduttore di una glottodidattica per bambini (Freddi: 1990/1990a, Titone: 1979). Esponiamo di seguito le modalità di intervento:
- la sensorialità: fondamento di ogni sviluppo dell’uomo viene spesso utilizzata con la sensorialità e produce delle forme di apprendimento-insegnamento che si integrano con altre forme di linguaggio non verbale;

- la bimodalità neurologica: visto il ruolo fondamentale giocato dall’emisfero destro, si deve realizzare una didattica che metta in causa entrambi gli emisferi cominciando da quello dei linguaggi non verbali.

- la semioticità: tale termine rinvia alla dimensione complessa della comunicazione in cui interagiscono linguaggi verbali e non verbali. Una tecnica molto efficace che esprime questa modalità è la Total Physical Response (Asher: 1969), con la quale l’allievo reagisce fisicamente a un ordine dell’insegnante. «Più associazioni si creano attorno a un elemento, migliore è l’apprendimento e la ritenzione» (Kalivoda-Morain- Elkins: 1983);

- la pragmaticità: la lingua è azione e nella pratica didattica ciò significa che bisogna dare più importanza alle parole, alle frasi che producono delle azioni, spingendo l’insegnamento verso la lucidità;

- l’espressivita: questa modalità rinvia all’utilizzazione di tecniche didattiche che possono educare il bambino a esprimere in modo spontaneo e autentico i suoi sentimenti, fantasie, sogni, intenzioni, ecc.
- l’autenticità: ci si riferisce qui soprattutto ai materiali didattici che devono perlomeno rivelarsi realistici o accettabili per uno straniero ma che soprattutto devono essere fondati sul bisogno del locutore di esprimersi e di agire in condizioni di liberta e spontaneità;

- il biculturalismo: questa modalità è connessa piuttosto agli obiettivi. Non si pretende certo di far raggiungere un biculturalismo o un bilinguismo; si cerca perlomeno di «mettere in crisi il realismo nominale del bambino» (Benelli: 1978) in modo che il nome non corrisponda più all’oggetto;

- la naturalità: dato che non vi sono delle motivazioni vitali per apprendere una lingua straniera, è necessario ricreare in classe delle situazioni di naturalità e funzionalità comunicativa facendo leva sulle attività connesse agli interessi e ai bisogni del bambino;

- l’integrazione delle lingue: questa modalità non deve ridursi a confronti di natura terminologica ma deve interessare gli obiettivi generali, le tecniche di lavoro, la valutazione e tutti i livelli di un’educazione linguistica cosciente.





Se tutte le modalità finora esposte sono avvolte da un’atmosfera di lucidità che trasforma l’incontro con la lingua straniera in un’esperienza gioiosa, allora l’acquisizione «... propria della lingua materna si ripete anche nella seconda lingua». «... sembra che questo miracolo possa aver luogo solo per il magico periodo dell’infanzia e della fanciullezza» (Freddi: 1990)



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