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domenica, marzo 23, 2008

i fiori della deserta / ورد الصحراء


ورد الصحراء


«E´ un film sbrigativo», dice Monicelli, all´anteprima bolognese de "Le rose del deserto". Con lui, prima di scappare in teatro per il nuovo spettacolo con Rocco Papaleo, un Alessandro Haber che gioca col Maestro alla vittima e carnefice, lamentando vessazioni sul set ed esponendosi alle bonarie frecciate del regista. Il tutto all´insegna dell´understatement: uno dei più grandi registi italiani di sempre si presenta - sciarpa blu, pantaloni di fustagno e scarpe sportive - come un toscanaccio qualunque: orgoglioso ma senza alterigia, affabulatore, furbo. Il volto adombrato da una peluria brizzolata è sempre lievemente imbronciato, concentrato, ma pronto a ricomporsi in un´espressione beffarda, ironica. I piccoli occhi dietro le lenti brillano incessantemente. Alla bellezza di 91 anni, Monicelli è un ragazzino. Racconta del nuovo film come di un piccolo nulla fatto senza sforzo, uno svago necessario. Tratto da un romanzo di Tobino (Il deserto della Libia), Le rose del deserto narra le (dis)avventure di un reparto d´infermeria dell´esercito italiano che sul finire della guerra mondiale si ritrova immerso nel brodo del deserto libico, in una operazione militare improvvisata e incomprensibile.


Tutti pensano che la guerra stia per finire e che quella di Libia sia una campagna veloce, facile e indolore: il maggiore (Haber) passa il suo tempo a scrivere lettere d´amore alla moglie, in mezzo a classici greci sfogliati dal polveroso vento africano; il giovane laureando in oculistica, interpretato da Pasotti, s´inerpica sulle dune per cercare le inquadrature migliori del sole fra le palme e gironzola, svagato e vacanziero, alla ricerca di soggetti da immortalare con la sua macchina fotografica. I soldati giocano a dama e goliardeggiano. I gradi più alti dell´esercito, ottusi e gretti, prendono decisioni strategiche e ricevono importanti notizie immancabilmente mentre mangiano enormi piatti di pastasciutta o sono immersi in vasche da bagno schiumose. Una vacanza, questa era la Libia: sicura era la vittoria, e sicura la partecipazione dell´Italia al futuro Gran Banchetto allestito da Hitler. Finché, nel film come nella storia, non cominciano a piovere le bombe e a morire i soldati. E tuttavia «c´è qualcosa nell´uomo che non muore mai», dice, in uno dei momenti più belli del film, lo splendido Placido, nei panni lerci e lisi di un fraticello energico, dai modi spicci, che arriva ovunque e ovunque aiuta. Non si tratta, dunque, di un film triste: vita e morte sono naturali nel fluire eterno del tempo, pianto e riso si confondono (e questo è tipico della grande commedia all´italiana), il vento spazza via tutto e ci si rimette in marcia. L´assurdità della guerra, che impone un solo modo di vita e azione, che sottomette la personalità degli uomini alle logiche infernali del suo inesorabile meccanismo di morte, è incarnata dal maggiore dall´animo raffinato, colto e romantico, che non ama comandare e attenua ordini e rimproveri sempre con la stessa formula: «ma per il bene che ti voglio.». ب la figura più drammatica, più complessa: la guerra ne travolgerà la vita, precipitandolo dalle altezze rarefatte della poesia ad una realtà brutale e insensata, che deciderà al suo posto i tempi e i modi. Tanto il maggiore è tratteggiato nel dettaglio tanto il generale, interpretato da un divertentissimo Tatti Sanguineti, è abbozzato in caricatura: è un ometto affettato dall´eloquio mussoliniano che pretende (e ottiene) un cimitero per la sua divisione, con una grossa croce in mezzo, e bada più ad avanzare di grado che al bene dei suoi soldati. Ma indegno del tempo umano, arriva e se ne va sempre sullo stesso sidecar, sempre in accelerazione.

"Le rose del deserto" racconta la guerra di Libia, certamente, ma come spesso accade ai film di Monicelli anche quest´ultimo finisce per tramandare un respiro più lungo del breve fiato degli accidenti storici: il coro dei personaggi con le loro vicende personali tesse, grazie anche ad una sceneggiatura magnificamente scritta, il racconto commovente dell´Italia, magma di dialetti (dal friulano al pugliese) e cadenze, ma paese unico, con una sua essenza indistruttibile. Un´umanità che il grande cinema italiano, con Risi, Germi, ma Monicelli soprattutto, ha descritto in decine di film: disorganizzata e leggera, altruista e generosa, furba ma ingenua. Quasi sempre perdente, e tuttavia tenace e durevole, proprio come quelle rose del deserto che non sono fiori che vivono lo spazio di un giorno, ma rocce scolpite dal vento e dalla sabbia


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